[ fotografie di S. Ragucci, Einaudi, Torino 2020 ]
La sera del 29 gennaio del 1996 Enrico Carella, titolare di una ditta d’impiantistica elettrica, incendia il teatro della Fenice di Venezia per evitare la penale dovuta al ritardo nel rifacimento dell’impianto. Complice di Carella, il “cugino padrone”, è Massimiliano Marchetti, il “cugino dipendente”. Carella non è un imprenditore in difficoltà che tenta un gesto disperato: oltre ad aver ottenuto il lavoro in subappalto perché suo padre è il capocantiere della ditta romana vincitrice della gara d’appalto, il sedicente padrone contrae grossi debiti per beni di lusso (nella scena d’apertura del romanzo acquista una costosa Bmw) e chiede ripetutamente prestiti alle sue fidanzate. Ma Carella non è neppure un personaggio dotato di una qualche profondità romanzesca: è «un elemento interscambiabile» (p. 11), uno dei tanti padroni-figli o padroni-cugini che vogliono solo «fare soldi, divertirsi, consumare di più, consumare divertimento, lavorare poco, di meno, meno degli altri, di tutti» (p. 85) e che pertanto, anziché agire come individui, sono agiti da un’ideologia che li sovrasta. Il racconto dell’incendio della Fenice non procede in forme lineari (anche graficamente il romanzo è costruito per lasse di testo più o meno lunghe separate da spazi bianchi e ripetutamente messe tra parentesi): da un lato, la narrazione è ellittica e passa attraverso un continuo andirivieni temporale in cui hanno un peso rilevante le testimonianze e le molteplici deposizioni processuali successive all’evento principale (fino alla fuga in Messico di Carella e alla sua estradizione); dall’altro lato, e soprattutto, essa è continuamente interrotta dal Leitmotiv della maschera (le fotografie di Ragucci) e da un diluvio di congetture, autoriflessioni, interrogativi e divagazioni dell’autore, il quale, anziché limitarsi a costruire ipotesi e a immaginare le intenzioni e i gesti dei personaggi, occupa costantemente la scena con la propria voce e con il proprio stile. I romanzi di Mishima e di Richler o i film di Antonioni e Thomas Anderson, la strage di Peteano e l’immunità di Almirante o la storia di Sacca Fisola e dell’inceneritore di Sacca San Biagio vengono inglobati all’interno di un’unica grande riflessione sui temi cari a Falco: la sconfitta del lavoro e la vertigine della mediocrità, l’assuefazione al linguaggio vuoto e feroce dei media, la cupezza della storia della «nazione luna park» (p. 45), le macerie del mondo e «il rimpianto per l’inespresso» (p. 79). L’ambizione di Flashover è narrare l’incendio appiccato alla Fenice sul presupposto che in esso si manifesti la vocazione distruttiva della società italiana degli ultimi decenni e che esso rappresenti una grandiosa performance del capitale. La storia incendiaria vuole insomma essere metafora del flashover raggiunto dalla civiltà occidentale. I tre minuti che un incendio impiega per transitare dalle sue fasi di avvio e di propagazione alla fase in cui esso è generalizzato e irreversibile (il flashover), sono per l’appunto «il fondamento dell’organizzazione capitalistica degli ultimi decenni, la manifestazione scatologica del nostro mondo» (p. 135). La molteplicità eterogenea di fenomeni che durano tre minuti e che Falco descrive e accumula (non senza ironia) – dalla telefonata degli impiegati di Vodafone al 3 Minute Miracle del balsamo di Pantene, dallo spot di McDonald’s alla durata media di una canzone pop-rock – esprime concretamente la pervasività della logica distruttiva del capitalismo. Fotografato in maschera, l’autore è a sua volta, come Carella o come l’uomo su YouTube intento ad appiccare un incendio per documentarne in tempo reale le fasi di propagazione, un volto spossessato, un «autoritratto del denaro» (p. 165), un’immagine della potenza e della trascendenza del capitale. La civiltà è ormai irreversibilmente defunta, flashover significa questo, e tuttavia la nudità e i gesti dell’autore fotografato da Ragucci sembrano voler irridere, oltre che offrire, l’autoritratto del denaro, l’asservimento coatto alla sua immagine neutra, al «volto della morte» (p. 171).
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